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UNA SALITA, QUATTRO STAGIONI.

  • Immagine del redattore: Camilla Bianchi
    Camilla Bianchi
  • 13 set 2022
  • Tempo di lettura: 8 min

Una salita, quattro stagioni.



Questa potrebbe essere la sintesi perfetta per quanto vissuto, più di un mese fa, il 5 e 6 agosto sul Monte Rosa.

Appuntamento alle 8.40 a Bergamo, oltre all’amica Rosa che sono riuscita a convincere in questa pazza idea, ci uniamo ad un’aspirante guida alpina e a due sconosciuti.

C’è quell’aria frizzantina della scoperta, del non sapere come andrà a finire e del pensare: “come reagirà il mio corpo a quelle quote?”

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Sono elettrizzata, era da un po’ che questo ronzio delle terre alte mi richiamava. Il tutto era partito da un ricordo, girando le pagine degli album fotografici dei miei nonni, trovando questa foto.

Mia nonna il 22 agosto del 52, con una corda, abbigliamento leggermente più adeguato degli abiti di tutti i giorni, accanto alla Madonnina sul Dente del Gigante, pilastro granitico inconfondibile nella catena del Monte Bianco.

L’idea iniziale era quella, a distanza di 70 anni, di unire ambizione e memoria e ritornare là in cima.

Ma i sassi che cadono e la montagna che si disgrega hanno, almeno per quest’anno, posto un veto. Il cambiamento climatico si manifesta con forza a partire dalle terre alte, dai luoghi che più amo e che a vista d’occhio si stanno trasformando irrimediabilmente. Decido di alzare lo sguardo e cambiare meta.

Dicevamo il Rosa. Il desiderio di misurarmi in un ambiente – il ghiacciaio - di fatto mai veramente frequentato (se non per un angolino nella salita annuale in Adamello) e la curiosità di capire come sto là in cima mi hanno fatto muovere i primi passi.

Partiamo alla volta di Gressoney direzione rifugio Mantova prima e Gnifetti come meta finale del primo giorno. Verso le 13.30 iniziamo a camminare, abbiamo una prima finestra di un’oretta, poi brutto tempo e poi di nuovo la possibilità di arrivare al Gnifetti, possibilmente asciutti.

Partiamo e nel giro di 20 minuti ci troviamo sotto un tetto di roccia ad aspettare che spiova.

Iniziamo a conoscerci: Francesco la nostra guida, di poche parole ma dagli occhi accorti; Anita, la più giovane del gruppo, entusiasmo traboccante per questo sogno che passo dopo passo si realizza; Luciano come tutti i Camuni affidabile e schietto e poi io e Rosa, compagna di orizzonti emozionanti e di condivisioni profonde. Riprendiamo il cammino: Francesco davanti, io lo seguo poi Anita, Rosa e Luciano chiude…pochi passi e inizia di nuovo un temporale, i tuoni squarciano l’aria e al posto della pioggia cade fitta, con ticchettio sempre più regolare, la grandine. Inizia a non essere piacevole stare lì sotto, aumentiamo il passo e in un attimo, o almeno a me sembra così, siamo al Mantova. Quando arrivi al rifugio che non a caso si chiama in questo modo, tutto ti sembra più bello e dolce e quasi poetico. Ci rifocilliamo, Francesco guarda il radar, abbiamo una quarantina di minuti e poi si riparte. Pronti via, seguiamo un pezzo di morena, poi ramponi, imbrago e caschetto e ci leghiamo, iniziamo ad essere una vera cordata.

Accanto a noi un’altra guida con i suoi clienti parte senza legarsi e legarli, i clienti chiedono spiegazioni e lui risponde “It’s not necessary”.


Mentre attraversiamo questa parte di ghiacciaio penso a quelle parole e a quella fretta di arrivare; probabilmente non è questione di vita o di morte attraversare senza protezione quel lembo di ghiacciaio sofferente, ma per me in quel momento è stata una forma di cura e di educazione.

Francesco stava prendendo le misure con noi e noi con lui: attenzione a come si cammina, a non calpestare né corda né i propri pantaloni, e al contempo mi ha ricordato lo stile con cui si va in montagna: insieme e rispettando i tempi di ciascuno.

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Non c’è l’ansia della prestazione ma il piacere della scoperta di un nuovo ambiente.

L’arrivo al Gnifetti regala un primo forte impatto sul ghiacciaio e sul Rosa, la stessa salita sulla scala a pioli in cordata e con i ramponi crea l’attenzione all’altro, a chi viene prima, a chi ci segue. Mi sta proprio piacendo! Arriviamo e ci sistemiamo nella stanza che ci viene assegnata; due letti a castello e una porticina bassa che porta a quello che tutti hanno definito “il loculo” che è diventata la mia “tana” con finestrella per la notte.

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Cena, chiacchiere e birra e scopriamo la passione di ciascuno di noi nell’andare per monti, l’attaccamento ai nostri territori, il servizio che a diverso titolo – dall’essere soccorritori, alla protezione civile, ai ruoli più istituzionali - ciascuno di noi gioca nelle proprie comunità. La montagna è anche questo: ti apre agli altri nella fatica, ti apre agli altri per quello che sei.

Al vociare delle tante, tantissime cordate presenti, soprattutto straniere, preferiamo il richiamo del letto: verso le 21.45 ci salutiamo, io do la buona notte dal mio cantuccio, ma penso che nessuno mi abbia sentito.

Guardo fuori un’ultima volta dalla finestrella che ho accanto al cuscino, sento ancora il vociare degli altri sotto di me e penso che ormai ci siamo. Indugio ancora sul dilemma: lenti a contatto sì, lenti a contatto no? Per poi addormentarmi con la certezza che, nonostante le mie scarse abilità, domani mattina dovrò ficcarmi le due lenti negli occhi così da procedere sul ghiacciaio con occhiali protettivi seri. Le sensazioni sono buone, non ho mal di testa, mi sento bene e ho un caldo piumino che mi coccola. Chiudo gli occhi.


Si sale!

Mi sveglio come sempre qualche minuto prima della sveglia, penso di aver dormito ed è già tanto, appena suona la sveglia iniziamo tutti ad essere operativi. Sapendo che la mia fatica mattutina sarebbe stata riuscire a vedere senza occhiali, mi dirigo subito in bagno, ho tre possibilità per ogni occhio e nel giro di 10 minuti, sprecando due lenti ce la faccio. Vedo senza occhiali!

La colazione è rapida, riempiamo i termos con thè caldo e si parte. Nel giro di poco mi ritrovo fuori, pronta per partire. Francesco decide la cordata e ci leghiamo: lui primo, segue Rosa, poi io, Anita e chiude Luciano. Camminare con i ramponi su roccia è una sensazione strana, non vedo l’ora di appoggiare i ramponi sul ghiaccio e sentire quel “croc” inconfondibile. Scendiamo dalla scaletta e via, ci allontaniamo dalla terminale per riprendere la traccia.

Davanti a noi giusto un paio di cordate, la traccia è ben visibile, le stelle sopra le nostre teste mi fanno sentire a casa e inizia il gioco labirintico tra i crepacci; fenditure che in salita vedi poco, il buio le nasconde e forse è meglio così.

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Al croc del ghiacciaio purtroppo sentiamo un “ciaf”, sembra di camminare in spiaggia, la fatica è quella. La notte non è stata fredda e non ha righiacciato, procediamo spostando il nevischio sceso il giorno prima.

Mi piace sempre quando inizio a camminare perché sento il corpo, il mio fiato che si mettono in moto, sento l’iniziale fatica del partire. A volte quando ho pensieri pesanti penso di non farcela o mi dico “ma perché?”. Questa mattina invece sento la curiosità. Un po’ di fatica l’avverto, poi penso che tutti la staranno facendo e mi concentro sui passi.

Iniziamo lo slalom, le nostre torce illuminano forme, buchi, creano ombre. Le nostre torce mi suggestionano e mi danno sicurezza. Dopo poco inizia ad esserci foschia, le due cordate che ci precedono non si vedono più, penso che tra un poco dovremmo vedere la luce dell’alba e invece il whiteout si palesa.

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Tutto bianco, tutto senza forma e profondità, tutto uguale. E’ una situazione che mi sorprende, io che vado in montagna soprattutto per quello che vedo oltre che per come mi sento, ora non vedo niente, giusto i compagni davanti e dietro di me. Fine.

Non ho paura, non ho freddo, non ho fame. Sono curiosa di capire se rimarrà sempre così, di raggiungere il monte Lys di cui Francesco ci aveva parlato mentre presentava il percorso della mattinata, per poi affrontare l’ultima parte di salita.

La cordata procede bene, le mie due compagne di viaggio hanno qualche problema legato alla quota. Abbiamo capito che vomitare aiuta, una ci riuscirà l’altra no e il malessere l’accompagnerà fino in cima. La cordata insegna il rispetto del tempo e delle necessità degli altri. Non fai il tuo passo, ma fai il tuo passo più quello dei singoli suddiviso per il numero dei componenti. Qualche volta qualcuno tira, qualche altra sei tu che tiri, a volte si cammina con lo stesso passo, a volte ci si ferma e basta. Accogliere le fatiche degli altri oltre che le proprie ci ridà la dimensione di quello che siamo al di là di tutti i ruoli che potremo rivestire, del portafoglio che potremo avere, delle persone che possiamo amare. Non vedo nulla ma mi ascolto tanto e osservo chi mi precede e segue.

Offro fruttini proteici, thè caldo e proseguiamo, per qualche momento si apre leggermente davanti a noi lo scenario e “uauuuuuu”, il mio cuore inizia a fare le capriole e inizio come al mio solito a parlare e alternare un “pazzesco” ad un “ma guardate che bello”. Faccio in tempo a tampinare di domande Francesco e a prendermi in giro dicendo “ma perché non prendiamo gli occhiali da sole, che ho fatto tutta sta fatica per mettere le lenti?!”, che nel giro di pochi minuti, in cui gli altri riescono a prenderli e ad indossarli, si ricopre di nuovo tutto, inizia a tirare un po’ di vento e a nevischiare. Ma Capanna Margherita l’abbiamo vista e ora la meta è davvero vicina. Il mio entusiasmo come al solito ha preso il sopravvento e cerco di motivare Rosa che è davvero cotta, alterno prese in giro su sue proposte “lasciatemi qui che poi arrivo col mio passo” a “guarda che ci siamo davvero, siamo arrivati”. Iniziamo gli ultimi 50 metri di dislivello, quelli più pendenti fino ad ora e quelli in cui può passare una cordata alla volta per cui se una scende l’altra deve trovare il modo di spostarsi senza fare pasticci.

Piano, piano, davvero arriviamo. Sono le 8.30 e siamo ancora immersi nel nulla. Vediamo solo la balzana costruzione della Capanna. La felicità è nostra compagna, ci togliamo i ramponi ed entriamo. Solo altre 4 persone presenti. Noi ci fiondiamo su pizza Margherita (specialità della casa) e Coca Cola, una torta e un thè. Tempo di ordinare e pagare che con uno sguardo vediamo che fuori finalmente si sta aprendo! Non stiamo nella pelle e usciamo. Arrivano tante altre cordate e il vociare diventa chiasso, ma la bellezza mi riempie gli occhi e ammutolisco. Davanti a noi lo scenario è magnifico. Mi commuove pensare che una settimana prima mi trovavo proprio dall’altra parte in un bivacco disperso sulla catena del Bianco e vedevo, nella limpidezza dell’alba, le stesse cime ma da un punto di vista opposto. Quanto amo la montagna.

Rosa non sta ancora bene, sono un po’ preoccupata per la discesa. E’ entrata in rifugio e si è addormentata sul tavolo. Come faremo? Francesco in realtà si sta già prendendo cura di lei e Rosa si affida. Delle miracolose pastiglie energizzanti nel giro di mezz’ora la risollevano. Alle 9 siamo pronti per ripartire, 9.15 ci avviamo verso la discesa e ora il paesaggio è magnifico. Anche Rosa si gode lo spettacolo, le foto si sprecano e io imparo, grazie a Francesco, che cos’è la neve pallottolare. Procediamo spediti ed incoraggiati da quanto vediamo. Due ore fa non si vedeva nulla, ora ci accorgiamo di essere passati accanto a costruzioni di ghiaccio, punte di roccia, crepacci nuovi e vecchi. Come nella vita quotidiana non sempre ci accorgiamo di ciò che c’è sotto il nostro naso e i nostri piedi.

Il caldo ora si fa insopportabile, tiriamo via guscio e piumino, rimaniamo in maglia termica e guanti.

Ho imparato che quando ti togli la giacca che sta sotto l’imbrago,

l’imbrago deve stare comunque fisso lì, che appunto anche quando vedi, non sai cosa ci sta sotto.

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Il viaggio a ritroso è per noi un viaggio di scoperta, Francesco ci indica le cime che accompagnano l’orizzonte e il grado di difficoltà di quelle salite, la mia mente inizia a sognare. Rimaniamo affascinati dai colori, dalle anse, dai buchi più o meno profondi, dai ponti che “terranno?”, dalle porzioni di ghiacciaio che non ci sono più, dal ticchettare di alcune gocce e dallo scroscio dell’acqua che scorre.

Uno sguardo al Gnifetti da lontano e arriviamo alla morena poco sopra il rifugio Mantova. Ormai il grosso è andato e inizia la fase nostalgia: “è già finito?”.


Una salita, quattro stagioni e tre nuovi compagni di avventure in più.





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